Elezioni Stati Uniti
Sulla Palestina ci sono davvero differenze tra Kamala Harris e Donald Trump?
Davide Mazzotta 04/11/2024
Se a poche ore dal giorno dell’elezione non abbiamo ancora la certezza su chi occuperà la Casa Bianca per i prossimi 4 anni, possiamo invece dirci certi che la popolazione palestinese non troverà pace in entrambi i casi.
Partiamo quindi dalla domanda principale: per quanto riguarda la Palestina ci sono delle differenze tra le posizioni di Kamala Harris e quelle di Donald Trump? Rispondiamo a questo quesito facendo una divisione tra “forma” e “sostanza”. Nella “forma” la risposta è sì, ci sono delle differenze e sono state accentuate soprattutto in questo periodo di campagna elettorale. Nella “sostanza” la risposta è no.
La posizione di Trump
La Posizione di Trump sul genocidio portato avanti da Israele è aberrante, ma non ipocrita.
Trump afferma senza giri di parole di essere totalmente dalla parte di Israele. La sua retorica anti-immigrazione e soprattutto anti-Islam si fonde perfettamente con il supporto incondizionato ad Israele, paese che viene dipinto come un baluardo della democrazia occidentale che deve sconfiggere i barbari islamici. La prima presidenza di Donald Trump è stata talmente filo-israeliana tanto che l’ex Presidente decise di spostare l’ambasciata americana sul territorio israeliano da Tel Aviv a Gerusalemme (riconoscendo quindi ufficialmente Gerusalemme come capitale d’Israele). Quando qualche mese fa Netanyahu tenne un discorso al congresso statunitense, Kamala Harris (che avrebbe dovuto presenziare in quanto Vicepresidente degli Stati Uniti e Presidente del Senato) decise di non esserci.“Aveva altri impegni, non è un per una questione politica” venne dichiarato, ma il segnale che arrivò agli elettori fu ben diverso. Trump in quel caso invece, da privato cittadino (non ricoprendo alcuna carica pubblica), decise di accogliere nella sua casa proprio Netanyahu e la moglie, mandando un segnale altrettanto chiaro.
Nella campagna elettorale probabilmente quello è stato il grande punto di rottura su questo tema per la percezione degli statunitensi. Da una parte Kamala Harris, che (per via del ruolo istituzionale che ricopre) avrebbe dovuto presenziare al discorso di Netanyahu e sostanzialmente decise di dare buca non rimandando gli altri impegni; dall’altra Donald Trump, un privato cittadino che a Netanyahu non avrebbe dovuto nulla, ma che decise comunque di accoglierlo nella sua casa con tanto di foto e sorrisi. Insomma non risulta difficile capire quale candidato già mesi fa andasse delineandosi come il candidato più “pro-Israele”.
La posizione di Harris
Dal famoso giorno del discorso “boicottato” ad Harris sono state poste sempre più domande sulla sua posizione circa la questione israelo-palestinese, domande alle quali la candidata democratica ha risposto tenendo il piede in due scarpe. Le sue risposte hanno avuto sempre due mantra inseriti nei “lunghi discorsi”: “dignità della vita dei palestinesi” e “diritto di Israele a difendersi”. Due mantra per me inconciliabili, quanto meno restano tali se non viene fatta chiarezza sul concetto di difesa. Perché è proprio dietro la parola “difesa” che Israele in questi mesi (e non solo) ha compiuto quello che TUTTI stiamo vedendo. Non può esistere dignità della vita palestinese se questo tipo di “difesa” continua ad essere permessa ad Israele.
Apprezzato lo sforzo di nominare la dignità della vita dei palestinesi (“forma”), ma nella sostanza questa dignità viene a mancare se si continuano a legittimare le azioni di Israele ed etichettarle come difesa. Per farvi capire meglio vi allego questo video: una ragazza chiede a Kamala Harris cosa farebbe se venisse eletta Presidente per quanto riguarda Israele e Palestina, la Vicepresidente parte col suo discorso (ormai ripetuto di continuo) ma nel concreto non risponde alla domanda.
@cnnVice President Kamala Harris responds to a question about what she would do to prevent more Palestinian civilian deaths during a CNN presidential town hall in the battleground state of Pennsylvania. #cnn #news♬ original sound – CNN
Ostaggio dei partiti
La posizione dei due candidati non è influenzata solo dalle loro coscienze e dai loro pensieri, ma anche dai rispettivi partiti.
Il partito di Trump (partito repubblicano) è composto da politici (e anche elettori) che sono TUTTI schierati con Israele: dalla parte più moderata del partito a quella più estremista, il supporto ad Israele accomuna tutti.
Anche per questo motivo Trump non teme di dirsi sfacciatamente pro-Israele, sa perfettamente che non perderà un singolo voto, perché tra i suoi elettori non c’è mai stato nessuno che non fosse totalmente in linea con le azioni d’Israele.
Per Kamala Harris invece è nettamente diverso, il suo partito (partito democratico) è abbastanza diviso (e di conseguenza lo sono anche gli elettori). Da una parte i moderati del partito, che sono totalmente filo-israeliani; dall’altra l’ala di sinistra radicale (quella rappresentata da Bernie Sanders e Alexandria Ocasio Cortez per intenderci) che più volte ha duramente criticato il governo israeliano e dato voce a posizioni che verrebbero etichettate come “pro-Palestina”.
Quando ad esempio Netanyahu parlò al congresso statunitense, la deputata del partito democratico Rashida Taibl (dell’ala di sinistra radicale) non applaudì al discorso ed espose un cartello con su scritto: “War criminal” e “Guilty of genocide”.
Democrat Rashida Tlaib holds up a sign branding Benjamin Netanyahu a war criminal during his address in Congress. pic.twitter.com/H3PmyEOlEt
— PoliticsJOE (@PoliticsJOE_UK) July 25, 2024
A livello politico è in questo difficile equilibrio che si muove Kamala Harris. Lei a differenza di Trump sa perfettamente che una linea fortemente pro-Israele le farebbe perdere dei voti, perché la gente che non è accecata dalla propaganda filo-israeliana è gente che vota tipicamente il partito democratico, è gente che si vede rappresentata dall’ala più radicale del partito di Harris. Contemporaneamente la candidata democratica sa perfettamente quanto spostarsi su posizioni di pura civiltà e di rispetto del diritto internazionale, che verrebbero etichettate come “posizioni pro-Palestina”, le farebbe perdere milioni di elettori moderati del suo partito.
Propaganda
Su questo precario equilibrio Trump ci ha puntato tantissimo. Vi faccio un esempio, guardate questa foto:
Queste due card sono state diffuse sui social entrambe dal team di Trump. Nella prima c’è scritto: “Kamala Harris sta con Israele”, nella seconda “Kamala Harris sta con la Palestina, non è una nostra alleata Israele”. Il trucco?
La prima card è stata fatta sponsorizzare solo in Michigan, stato con un’importante presenza (a livello numerico) di elettori araboamericani.
La seconda è stata fatta apparire invece solo sui social di chi risiedeva in Pennsylvania, stato in cui vi sono molti elettori ebrei.
Lo stesso identico team che sostanzialmente afferma l’opposto.
La propaganda di Trump sulla Palestina quindi da un lato mirava a pubblicità (anche contraddittorie) in luoghi specifici, per fare perdere voti ad Harris sia tra gli ebrei che tra i musulmani; dall’altro invece (a livello nazionale) durante i suoi comizi i discorsi che venivano fuori erano discorsi carichi d’odio verso i palestinesi. Dal palco del comizio di Trump a New York, Rudi Giuliani (politico ed ex avvocato di Trump) ha affermato: “Ai palestinesi viene insegnato ad uccidere gli americani a 2 anni. Harris vuole portarli da noi”. In perfetta linea con la retorica di deumanizzazione portata avanti da Israele. È così facendo che si giustifica lo sterminio di un intero popolo, dipingendo tutti (bambini compresi) come un popolo di terroristi e di assassini.
The most vivid anti-Muslim vitriol came from @RudyGiuliani, who attacked all Palestinians – even the “good people” among them. pic.twitter.com/VB3vpIMVa4
— Andrew Revkin 🌎 ✍🏼 🪕 ☮️ (@Revkin) October 28, 2024
Opinione pubblica israeliana
L’opinione pubblica israeliana, ben cosciente di quanto Trump darebbe al loro paese il massimo supporto senza neanche accennare per retorica a “dignità della vita dei palestinesi”, ha le idee ben chiare.
Un recente sondaggio pubblicato su “The Times of Israel” ha evidenziato come ben il 66% degli israeliani si augura una vittoria di Trump, contro il 17% che spera vinca Harris e un 17% di “non so”.
Rendere conto
La netta preferenza degli israeliani per il candidato repubblicano ritengo sia dovuta anche al fatto che Trump (in un’ipotetica seconda presidenza) avrebbe totalmente le mani slegate e non dovrebbe mai rendere conto a nessuno del suo totale supporto ad Israele, anzi se mai verrebbe spinto dalla totalità dei suoi elettori e del suo partito ad avere una linea più pro-Israele possibile.
Harris (per via della composizione del suo partito) si troverà sempre a dover bilanciare le sue azioni e a giustificarle agli occhi degli elettori dell’ala di sinistra radicale del suo partito (a meno che non decida di suicidarsi politicamente), elettori di cui avrà sempre bisogno soprattutto in vista delle elezioni presidenziali del 2028 (elezioni alle quali Kamala Harris correrà cercando di essere eletta per un secondo mandato, qualora dovesse diventare Presidente tra pochi giorni).
Campagna elettorale e amministrazione Biden
Possiamo visualizzare due frasi emblematiche per capire come la campagna elettorale si sia evoluta su questo tema: mentre Kamala Harris continuava a ripetere nelle interviste che “ci vuole un cessate il fuoco”, Donald Trump ripeteva in diretta tv: “io penso che Bibi (si rivolge così quando fa riferimento Netanyahu) stia andando avanti abbastanza bene, è Biden che sta cercando di fermarlo”.
Trump on Netanyahu’s genocidal wars and attacks on civilians and UN:
“He’s doing a good job. Biden is trying to hold him back and he should be doing the opposite. I’m glad that Bibi decided to do what he had to do – it’s moving along pretty good.” pic.twitter.com/pFiQpc6hKp
— Anonymous (@YourAnonCentral) October 27, 2024
Sulla carta quindi la differenza c’è e ci sembra evidente, ci troviamo infatti nell’ambito della “forma”. Il problema ancora una volta è la sostanza. Quando Kamala Harris parla della necessità di un cessate il fuoco dobbiamo tenere BENE a mente che a parlare non è una candidata che non ha mai ricoperto ruoli di potere, non è una candidata per la quale possiamo pensare “wow vedrete, finalmente arriverà lei e cambierà tutto per quanto riguarda il supporto degli Stati Uniti ad Israele”. A parlare è chi si trova attualmente al governo. A parlare è l’attuale Vicepresidente degli Stati Uniti. Il cessate il fuoco avrebbe dovuto portarlo a casa già da mesi.
Ora, è vero che il potere del Vicepresidente degli Stati Uniti è molto meno ampio rispetto a quello che l’opinione pubblica italiana possa pensare, è vero che il suo ruolo è praticamente un ruolo di rappresentanza e sostituzione del Presidente ad eventi istituzionali, ma 1) non mi risulta che neanche pubblicamente Harris si sia dissociata dalla linea dell’amministrazione Biden sul supporto ad Israele (linea che per quanto è stata critica verso Israele nelle dichiarazioni, lo è stata molto molto meno nei fatti);
2)davvero possiamo pensare che una volta arrivata al potere, come Presidente, Harris cambierà totalmente linea rispetto all’amministrazione Biden di cui faceva parte? Ho i miei seri dubbi.
Ma forse prima ancora di Kamala Harris, la vera domanda da farsi è: davvero possiamo pensare di avere un Presidente degli Stati Uniti che non sia totalmente schiacciato alla volontà d’Israele? Ho i miei dubbi anche su questo.
Quindi nessuna differenza tra Harris e Trump?
Dinanzi a ciò è tipico il ragionamento del “quindi uno vale l’altro”, “nessuna differenza”. Senza giri di parola va detto che sì, sono abbastanza sicuro che per i civili palestinesi non ci sarà chissà quale differenza tra le politiche che adotterà Trump o quelle che adotterà Harris. Se mai la scelta è tra una situazione disastrosa come lo è attualmente e una potenzialmente ancora peggiore. I palestinesi se fanno ben poco di frasi che parlano della loro dignità se poi chi le pronuncia subito dopo ribadisce il supporto ad Israele attraverso l’invio di armi.
Non penso invece che si possa dire in senso assoluto che tra i due candidati non ci sia alcuna differenza. Non lo penso perché sarebbe sbagliato. Sarebbe uno schiaffo in faccia alle milioni di donne statunitensi che da 2 anni si vedono negato il diritto all’aborto per via dei giudici della Corte Suprema nominati da Trump. Loro lo sanno benissimo quanta differenza invece ci sia tra un candidato e l’altro.
Sarebbe sbagliato dirlo, perché la comunità lgbt+ statunitense conosce perfettamente le politiche e i discorsi d’odio portati avanti da Trump. Sarebbe ingiusto verso tutto quelle minoranze che hanno vissuto sulla loro pelle la crudeltà della presidenza di Donald Trump.
Le differenze ci sono, ma purtroppo non per i palestinesi. Gli Stati Uniti, paese che affonda le sue radici in colonialismo e “esportazione della democrazia”, sono infatti un paese nel quale il tema in cui i due avversarsi sono più vicini è il supporto ad uno Stato che porta avanti indisturbato un regime di apartheid e lo sterminio di un popolo.
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